Il Grinta, recensione

Il Grinta, recensione

Il Grinta è un remake del famoso omonimo del 1969 diretto da Henry Hathaway ed interpretato dall’icona western di tutti i tempi, John Wayne, un remake però anomalo perchè i Coen lo reinterpretano, lo smontano e lo rimontano ma sempre con la consapevolezza che il materiale filmico sia composto principalmente da elementi narrativi preesistenti, ma che vengono ricollocati all’interno di una narrazione in maniera del tutto nuova.
Il tema western nelle pellicole dei Coen è sempre presente in qualche modo, sia esplicitamente come in Non è un paese per vecchi, o in modo più velato come in The Big Lebowsky, questo perchè è parte integrante della realtà raccontata dai due registi e paradossalmente Il Grinta è quella meno western delle altre: più vicina a The Big Lebowsky, la pellicola infatti scandaglia l’antieroe americano che qui è incarnato dall’ufficiale dell’esercito federale Usa alcolizzato e dal grilletto facile,Rooster Cogburn,(interpretato di nuovo da Jeff Bridges) che nonostante la sua completa inettitudine si trova, suo malgrado, a dover fronteggiare la sete di vendetta della quattordicenne Mattie Ross.



Il mondo in cui si trovano è in completo disfacimento e molti personaggi sembra che si lascino cullare fino alla deriva, con la consapevolezza e la rassegnazione che nulla può essere cambiato: la società fa schifo ma alla fine chissenefrega; come Drugo, disoccupato, senza un dollaro, accetta inesorabilmente il suo destino su una pista da bowling.
I Coen omaggiano e nello stesso tempo reinventano un genere che nell’ultimo decennio era del tutto scomparso; contrappongono uno stile quasi mistico, descrivendo l’incontro di due mondi diametralmente opposti: quello della ragazzina e di Cogburn, trattegiando in maniera molto delicata le due diverse personalità e la passiva accettazione dei tempi che cambiano.
Candidato a dieci premi Oscar, il film rappresenta l’apoteosi stilistica dei due fratelli del Minnesota, la perfezione assoluta, basata su un gioco di bilanciamenti straordinario: da una parte la caparbietà di una ragazza che cerca la vendetta per la morte del padre e dall’altra un uomo appesantito dagli anni e dall’età, arrabbiato con il mondo, rassegnato ma consapevole che vi può essere una possibile catarsi (cosa che invece Drugo non vede, anzi si crogiola nella totale apatia, che però gli fa vivere felicemente la sua vita senza colpi di scena e senza iniziativa, se non per fattori esterni, che gli sono come piombati dal cielo, ma che assolutamente non è in grado di trasformare a suo vantaggio).
I Coen danno vita ad un’America composta solo da 38 stati, nell’ultimo periodo del selvaggio west, ricostruendo minuziosamente costumi e scenografie, il tutto incorniciato da una fotografia perfetta che sicuramente supera gli ultimi loro lavori, al pari di Fargo e di Barton Fink.
Straordinario.